Presente nel catalogo di Prime Video insieme alla seconda stagione dell’applaudita serie televisiva Homecoming e all’intenso teen drama sul controverso mondo scolastico Selah and the spades, diretto dall’avventizia ma talentuosa Tayarisha Poe, La rabbia di Louis Nero costituisce una ri-scoperta degna d’interesse.
Gli elogi a buon mercato non ci appartengono né destano trasporto al suo autore, che Mondospettacolo ha incontrato per intervistarlo in merito all’aura contemplativa del cinema d’autore. Coglierla non è una passeggiata di salute. Tuttavia Louis Nero è alieno alle distinzioni all’acqua di rose: ama la Settima arte tout court; l’ha confermato nel recente thriller sui generis The broken key. Gli preme il rapporto tra lo spettacolo della recitazione e il carattere d’ingegno creativo della regìa. L’estro surrealista, gli stimoli esoterici, la psicomagia, cara ad Alejandro Jodorowsky, il nume tutelare per antonomasia, e il giusto dosaggio di afflato simbolico ed estro figurativo sono una diretta conseguenza. Con gli attori e le attrice di fama internazionale è riuscito a intendersi davvero. Governando i fattori espressivi costituiti da validi tecnici ed esperte maestranze al fine di definire un quadro corale. Zeppo di colpi d’ala. Senza dubbi amletici o vani compiacimenti. Bensì con diverse frecce al proprio arco.
Il richiamo citazionistico, che permea la cifra stilistica dei tuoi film, da La rabbia, in sala nel 2008, al recente The broken key, ha una valenza alla base distesa, ed ergo superficiale, come l’intende Tarantino preferendo l’immediatezza del cinema commerciale alla fitta gamma d’input ad appannaggio di quello d’autore, o vi è qualcosa di più profondo?
Intanto la questione generazionale esercita un peso decisivo al riguardo: la mia generazione si è servita del cinema e dei film come se si trattasse della letteratura e quindi dei libri. Oltre all’aspetto narrativo è emerso in tal modo il valore intellettuale d’ogni saggio d’arte. Perciò usare citazioni, in maniera implicita ed esplicita che sia, equivale a tirar fuori nella scrittura per immagini la parte dell’inconscio e del subconscio. Qualcosa che un autore ha interiorizzato. Ed è qualcosa di profondo, hai ragione. Nella sequenza con il personaggio interpretato da Arnoldo Foà allo specchio, come hai notato, la citazione biblica è preminente. La rabbia poggia su quell’evocazione. Da questo punto di vista il regista è il creatore dell’opera che dirige. Una sorta di deus ex machina. Anche se, a ben guardare, in un film non esiste un solo ed esclusivo creatore: è la collettività che diviene la creatività nutrendola col lavoro di squadra.
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Il rapporto tra immagine e immaginazione, al di là della capacità di trarre linfa dai rimandi all’altrui estro, perché spesso sono citati i filmoni per fare un filmetto mentre altre volte assistiamo a filmoni che citano i filmetti, necessita di una personalità forte per assorbirne la forza significante?
Condivido il pensiero di Picasso in merito: Los buenos artistas copian, los genios roban (I cattivi artisti copiano, i geni rubano).
Dunque, se c’è qualche idea valida di un antesignano, prenderla ed elaborarla è lecito?
In fondo sì. Se fatto in modo onesto è persino nobile. Perché adatta il lascito dell’antesignano scomparso all’epoca in cui viviamo. Rientra nei compiti dell’arte.
Ed è una forma d’arte la citazione al cinema del quadro di Munch. Penso a Marlon Brando che grida con le mani sulla testa in Un tram che si chiama desiderio. Ma anche ad Al Pacino alias Michael Corleone quando gli uccidono la figlia ne Il Padrino parte III e a Marion Cotillard nei panni di Edith Piaf in La vie en rose. Al momento che apprende della morte di Marcel Cerdan. È il simbolo che conta alla fin fine?
Senza alcun dubbio. Ogni volta che un artista vuole scandagliare ed esprimere l’immagine della disperazione, tra virgolette e non, inevitabilmente pensa a Munch. Ciò che richiama alla mente un’opera di pensiero, e che viene alla mente a chi fa arte, è parte appieno di un background culturale ampio ed eterogeneo. Che agisce quasi in automatico. Sono gli archetipi ad alimentare l’arte. L’artista non inventa nulla. Ma trasforma questi archetipi. Li elabora e li rielabora. Come hai detto giustamente tu.
Ti fidi molto del tuo istinto sul set?
Non solo del mio. Ma di quello di tutti i miei collaboratori. Mi piace molto lavorare a stretto contatto con lo scenografo. Anche su alcuni particolari che non si vedranno. Le luci, garantite dall’ausilio prezioso del direttore della fotografia, i costumi, i movimenti di macchina richiedono ore e ore di prove. Preferisco dedicarvi tanto tempo e poi girare un solo ciak. Anziché il contrario. E questo dipende dal mix d’istinto ed elaborazione.
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Il lavoro di squadra ricava linfa dalla visione totale del regista eletto ad autore?
Il compito del regista è far sì che la squadra lavori nel miglior modo possibile. Non a livello di confort. A volte mi accapiglio di brutto con i miei collaboratori. Pur di stimolare al meglio la loro creatività. Mettendola al servizio del film che sto girando.
L’autore, secondo quest’ottica, pungola sé stesso e gli altri?
Un regista/autore se riesce a spingere gli attori, le attrici, il direttore della fotografia, gli scenografi, i costumisti e tutti gli altri collaboratori a superarsi, facendo anch’egli lo stesso ovviamente, raccoglie i frutti.
In riferimento a La rabbia, che si discosta dai thriller canonici, hai voluto concepire una variante rispetto alla consueta idea di suspense?
Gli stilemi del thriller sono da attribuire al mistero da svelare. Ma il viaggio interiore è il vero enigma.
Ed è quel margine d’enigma, che risiede nell’arcano concernente un incontro degli imperativi commerciali con l’idealismo dell’arte, a inquietare il velleitario cineasta protagonista. Snobbato dai produttori, fedeli all’adagio latino carmina non dant panem (le poesie non danno pane), al punto da arrivare a compiere una rapina dimostrandosi più bravo nella criminalità che nella creatività. L’arcano resiste?
Sì. Assolutamente. C’è un arcano per l’intera durata del film La rabbia. È legato alle ragioni che spingono a creare un’opera dal niente, esprimendo un proprio punto di vista sul mondo attraverso l’oggetto poetico svelato passo per passo dal metacinema e dagli elementi costitutivi del simbolismo. Che è il filo conduttore della ricerca interiore. Quando realizzo un film innesco lo stesso identico processo creativo.
Il brivido, o thrill che dir si voglia, acquista così un valore di rappresentazione?
Lo acquista esattamente seguendo questa falsariga: il vero processo creativo è la messa in scena.
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E diventa un mistero agli antipodi degli effetti comunemente intesi della suspense. I colleghi talvolta non concordano. Massimo Troisi, riferendosi al trattamento riservato al grande Totò da parte della critica accademica schiava del mero impressionismo soggettivo, risolse tutto con una memorabile battuta. Chiarendo che nessuno si ricorda di quei critici, quando coniugano la vita all’imperfetto, mentre nessuno si scorderà mai di Totò. Perché era perfetto. Tu come la pensi?
In primo luogo giudico Totò un genio unico al mondo. Irripetibile. I critici che l’hanno, per così dire, bastonato, a causa della modestia di alcuni film interpretati comunque con la solita classe recitativa e il balenio dell’ingegno dal Principe della risata, non ci hanno visto lungo. Questo è poco ma sicuro. Da parte mia con la critica in generale ho un rapporto abbastanza normale. Alcuni critici mi hanno amato. O almeno apprezzato. Altri mi hanno odiato. O, se non altro, disapprovato. Citando François Truffaut, che se ne intendeva, il critico quando stigmatizza un modo di girare i film, o tanti modi di farlo, è come il sergente che spara sui propri soldati. Senza quei modi di girare i film, lui rimarrebbe solo. In balia di sé stesso. Invece di fungere da tramite tra pubblico e autore.
Truffaut lo sapeva, avendo fatto il salto del fosso. Da critico de I Cahiers du cinéma a regista di punta della Nouvelle Vague. Lamentandosi di essere giudicato da gente all’oscuro dei film di Murnau. Che di per sé fa sorridere. Nonostante il tono cupo di alcuni tuoi film, da cui emerge in ogni caso un controcanto grottesco, se non proprio buffo, ti piace scherzare?
Con Tinto Brass è stato divertentissimo lavorare. Dirigerlo sul set de La rabbia mi ha davvero rallegrato. Lui si è reso disponibile per impersonare il ruolo del produttore di film erotici ed è stato di parola. Però sul set era tremendo: cambiava tutte le battute, si divertiva a modificare le indicazioni che gli davo ed essendo un autore inseriva degli aggettivi di natura sessuale nel copione di cui sinceramente ignoravo il significato. Ed è il segno distintivo della sua genialità. In grado di spiazzare continuamente. Di sorprendere. Senza costeggiare mai alcuna forma di prevedibilità o di noia. In fondo in quel personaggio Tinto ha rifatto sé stesso sul grande schermo. Ed è stato divertente e sorprendente.
Quindi la rabbia, che può essere frutto della frustrazione o il motore della ferma voglia d’invertire la tendenza in un ambiente come quello cinematografico ostile ad autori senza santi in paradiso, può cedere spazio all’autoironia e all’ironia?
Certamente. L’unica mia preoccupazione era che i termini usati da Tinto, quasi dei neologismi, risultassero incomprensibili al pubblico. Per il resto ho lasciato che trapelasse il suo modo di essere. Il carattere d’autenticità è divenuto un valore aggiunto. E costituisce pure un bellissimo ricordo dell’intesa da regista ad attore e da regista a regista.
E anche da autore ad autore. Pure perché, dopo molteplici movimenti di macchina in avanti, quando lo mostri alla scrivania, nel ruolo del produttore, usi la cinepresa in direzione opposta. Capace di conferire un climax particolare alla sequenza in questione. La virtù della geografia emozionale, che rende il territorio promosso a location un personaggio in carne ed ossa, ti sta a cuore come il valore drammatico ed evocativo dei movimenti di macchina?
Senz’altro. Impiego un tempo infinito per trovare le location che corrispondono all’idea che ho sin dal principio sul film da realizzare. La geografia emozionale, come la definisci tu Massimiliano, ricopre un ruolo di spicco nell’arco dell’intero processo creativo necessario a portare a termine le riprese nel miglior modo possibile. Il territorio, penso alla spiaggia con le orme del protagonista e la porta simbolica che si vedono all’inizio del film La rabbia, non resta mai un semplice sfondo. Il Museo Egizio di Torino in The broken key era fondamentale. Non volevo rinunciarci. Ho lottato con le unghie e con i denti per averlo, a costo di entrare in guerra con le istituzioni. Le location incidono sull’esito finale del film tanto quanto gli attori e le attrici. Né più né meno. Lo stesso vale per la componente luministica della fotografia.
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Scrivere con la luce serve per chiudere il cerchio o permette di far capire allo spettatore cose che altrimenti non capirebbe o è un modo per stimolare ed essere stimolato allo stesso tempo?
Solitamente tutta la luce che registro in camera è quella. Quindi non cerco di ricavar maggior decoro artistico dal punto di vista visivo dalla capacità di scrivere con la luce. I riverberi, insieme alla scala dei rossi e degli altri colori, voglio che siano presenti in camera. Per vederli dapprincipio. Perché veicolano il messaggio del film, alla stessa stregua della scenografia, sulla scorta dei modi espressivi che ne derivano: la luce riflette la psicologia dei personaggi. Rifuggo perciò dalla piattezza naturalistica. Davanti all’obiettivo la riproduzione dei compositi toni e la correzione automatica del colore della luce, per mezzo del filtro ottico, aguzza le doti creative che servono per imprimere un determinato stile. In chiave simbolica ed espressionista. L’illuminazione diventa ai miei occhi, in veste di estetica dell’immagine ricca di significato, un’opera di pittura a tutti gli effetti. Con elementi di contrasto ed echi compositivi.
L’apporto garantitoti dal compianto compositore Luis Bacalov, vincitore del premio Oscar per la colonna sonora de Il postino di Michael Radford, passo d’addio dell’indimenticabile Troisi, ti ha permesso di aggiungere senso all’apologo sulla Settima arte dove sembra, da copione, sia “più facile uscire dall’alcolismo che rientrare nel cinema”?
Considero la musica un tassello estremamente importante. Non a caso seguo il musicista anche nelle registrazioni: mi metto seduto accanto a lui nella piena convinzione che in quel momento non sono certo io a comandare; è il musicista ad avere pieno potere. È lui il capo. Non sono un musicista. Tuttavia nella costruzione della musica mi piace stare a fianco ad artisti della levatura di Bacalov per vedere come accoppiare certi arrangiamenti alle immagini. Con Bacalov mi è bastato andare a casa sua, parlargli della marcetta dell’indimenticabile 8 e ½ di Federico Fellini ed è stato tutto semplice: lui ne ha tirato fuori una colonna sonora che cadenzava come volevo il viaggio interiore del film La rabbia.
L’interazione tra sogno e realtà si va ad amalgamare al mix di suoni diegetici ed extradiegetici con slancio immaginifico. Ci vuole più immaginazione o più forza di persuasione per spingere gli attori e le attrici dall’appeal internazionale a mettersi a disposizione del mezzo cinematografico, Louis?
Eh, bella domanda! Ho diretto attori e attrici molto importanti. Che potevano imporsi per scegliere le inquadrature più adatte a brillare loro al posto del film. Quando un interprete è come Arnoldo Foà, non ci sono problemi. Le star, estranee al divismo, posseggono il dono dell’umiltà. E restituiscono al regista stimoli creativi decisivi sul terreno della spontaneità e dell’intensità espressiva. Riuscire ad afferrarne la stima, a spingerli a fidarsi delle indicazioni del regista, e quindi ad alcune esigenze di estrema delicatezza, che hanno nulla da spartire con la vanità, è imprescindibile. Ho imparato, andando avanti in questo lavoro, a non dire più tutto. Il lavoro di sottrazione dimostra che togliere qualcosa non è una rinuncia. Ma un atto di coraggio ai fini della migliore riuscita dell’opera finale. Ed è importante far capire anche agli attori e alle attrici di un certo peso che non si tratta di rinunce. Né di torti.
Così facendo, citando Bruno Dumont, togliendo al visibile, si aggiunge all’invisibile?
È l’aspetto dell’invisibile che muove il visibile.
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In The broken key per supportare il valore dell’immaginazione mostri di meno. Dunque fai immaginare di più rispetto a La rabbia. È perché sei più maturo?
Sicuramente. Ogni mio film ha rappresentato un’esperienza in grado di portarmi in contatto con contesti, persone, modi di lavorare incredibilmente stimolanti. Alla fine delle riprese, non potrei rifare il film nello stesso modo: esco trasformato da tutti i set dove mi sono confrontato con gente creativa. Il mio compito è gestire tutta questa creatività, trovando il punto di convergenza per tenere salde le redini dell’operazione complessiva. Non è facile affatto. Nondimeno misurarsi con imprese del genere arricchisce l’attitudine artistica, organizzativa ed empatica dei registi che esprimono con caparbietà un proprio pensiero nei film che dirigono. E che quindi creano. Come autori. Sempre, ribadisco, grazie alla preziosissima collaborazione di altri artisti.
Hai diretto interpreti del calibro di Faye Dunway e Philippe Leroy. In The broken key nel cast ci sono Geraldine Chaplin, Rutger Hauer, Maria de Medeiros, il “tuo” Franco Nero, che recita anche ne La rabbia, e last but not least Michael Madsen. Roba da far tremare, per dirla alla Dante, e tu lo conosci bene, da far tremare le vene e i polsi a un regista novellino. Da regista ormai esperto, come ti sei regolato?
I grandi interpreti di solito vogliono emergere. Si giudicano artisti. E quindi sono restii a ubbidire al mezzo tecnico senza metterci del proprio. Io sono stato, se vuoi, anche fortunato. Questa fortuna in un certo senso me l’ho cercata. Giungendo a un accordo con i grandi attori e le grandi attrici che ho diretto. Con alcune star ci sono state scintille. Me ne ha dette di tutti i colori lì per lì. Dopo sono scesi a più miti consigli. Fino ad abbracciarmi perché la loro mimica risultava efficace come la scena. Con Philippe Leroy ho instaurato un rapporto di stima e di sincero affetto. Oltre che di fiducia. Anche se la fiducia resta un aspetto irrinunciabile. Senza quella, la faccenda si fa dura. Gli attori e le attrici per restituire ciò che un regista vuole da loro si devono fidare: non si scappa. Tenere tutti gli aspetti bilanciati, tenendo fede all’opera complessiva, richiede diplomazia ed estrema concentrazione. Come regista meno famoso e riverito degli attori e delle attrici oggetto d’idolatria, che hanno potere contrattuale, non ho alcun modo di battermi contro quei pesi massimi. Per convincere Michael Madsen nel ruolo di Tullio De Marco a “morire” in The broken key ho sudato sette camicie. Mi ha detto: “se non mi convinci perché il personaggio deve morire, io questo scena non la giro”.
L’opera di persuasione serve ad anteporre lo spettacolo di primo piano della scrittura per immagini alla recitazione senza che gli attori pensino di rappresentare uno spettacolo di secondo piano?
Più un regista è autore, meno deve mettere di sé stesso, inteso nella permalosità e nel desiderio d’imporsi sul versante della vanità, nel film. La corazza dell’ego rischierebbe altrimenti di essere un ostacolo alla realizzazione dell’opera che un regista ha in testa prima dell’inizio delle riprese. Ribadendo, ben inteso, l’importanza dell’istinto. Per dare spazio all’aspetto artistico impreziosito dall’istinto. Gli interpreti cercano nella guida del regista una persona della quale fidarsi. E hanno anche ragione: se un regista commette delle stupidaggini, loro ne risentono. Da parte sua il regista deve sopportare determinati atteggiamenti dettati dal desiderio di mettersi in mostra ma al contempo resta una guida. Il dialogo stabilito con Michael Madsen lo dimostra nel modo più chiaro e definitivo. Dopo averlo convinto una volta, quando sembrava voler rimanere sulla sua posizione contraria alla mia, si è affidato. Mi ha chiesto lumi, suggerimenti. E anche quando era contrario alle mie scelte, il confronto è stato proficuo: lo considero un attore eccezionale pure per il desiderio di confrontarsi fino in fondo.
Massimiliano Serriello
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