Come un angelo sceso a redimerci , in tutta la sua semplice e pacata fierezza.
E’ così che entra in scena Benjamin Clementine alla cavea dell’Auditorium di Roma. accompagnato da cinque coriste , una polistrumentista, un bassista ed un batterista.
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Indossa una tuta azzurra ed un elegantissimo coprispalle bianco , ai suo gestii eleganti e a quell’ andamento da “Artista di Strada“.
Siede sull’alto sgabello tonet , accanto al pianoforte , nella penombra del palcoscenico, e aspetta, Benjamin aspetta che il suo pubblico prenda posto e lo invita a fare presto , così che tutto abbia inizio.
E’ fermo; immobile davanti al pianoforte e osserva il pubblico silenziosamente.
Ma ecco che tutto prende forma.
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Le luci si accendono, si colorano di rosso e di blu ed un ritmo primordiale invade tutta la Cavea mentre si appresta ad interpretare i primi due brani :
By the ports of europe e God save the jungle.
Suona e canta , quasi senza false aspettative Benjamin , quasi senza bisogno di riconoscimenti, con quell’emancipata umile civiltà che contraddistingue solo i grandi e veri artisti.
Ringrazia il suo pubblico. Poi sorride. Poi ironizza , poi invita a cantare , a capire e a tradurre i suoi testi.
Ad accoglierlo un pubblico che timidamente risponde a cori in un inglese indeciso. Lui corregge, ci gioca su, invita a ripetere cori e parole. Interagisce e stupisce.
Poi mette a nudo le proprie fragilità, quasi partendo dai piedi (scalzi) con quella delicatezza e quella forza accompagnata da una sorta di consapevolezza dell’ essere “quel coraggio di sentirsi deboli.”
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Avvolto da un aurea celestiale, per mano a una malinconia romantica, si appropria della sua stessa identità, che tutto avvolge e che solo a riconoscerla intenerisce il cuore e non lascia scampo ne tanto meno respiro, e vince sull’indifferenza .
Un turbine di emozioni travolgenti si rincorrono e avvolgono l’intera cavea quando interpreta in un suo autoritratto vocale il brano: Candolence.
Un imponente composizione musicale, che con tutta la propria forza giunge come un tumulto emotivo che si impone e che comunica.
Passa da una voce morbida, a volte torbida ; pregna di un pianto soffocato, a volte classica, sofisticata e graffiante che giunge all’apice del sentimento
e a quell’ incomunicabilità feroce che trova la sua strada d’uscita attraverso l’espressione; un espressione che esplode istintivamente e definitivamente così ,da squarciare il silenzio, come in un taglio di fontana su tela bianca.
Così , come in una preghiera poi, sussurra brani come London e Adios .
Riserva al suo pubblico attento, un omaggio all’ Italia e a Lucio Dalla , interpretando , uno dei grandi successi dell’artista: Caruso
E a guardarlo bene Benjamin , porta con sé l’eredità e il primitivismo arcaico primordiale dell’essenzialità.
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Non poteva che essere uno di quei musicisti chansonnier , di quelli che immaginiamo camminare spersi fra i vicoli di Parigi, l’erede di J.M. Basquiat e non solo per la somiglianza.
Probabilmente mentre uno moriva, l’altro si preparava a nascere e a crescere con una voce così calda,. con una presenza di quelle che non si dimenticano ma che anzi si fanno ricordare, e che ti lasciano con quel senso di ammirazione, come quando ammiriamo un indomabile tigre in tutta la sua letale bellezza.
Paola Maccaroni
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