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Scarlett Fire: L’Espressività in Primo Piano, tra Arte e Complicità

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Paola La Montanara, in arte Scarlett Fire, è una fotomodella professionista, cantante, autrice e sceneggiatrice che incanta con la sua versatilità e passione. Originaria della Puglia, collabora con fotografi di tutta Italia, da Milano a Torino, ma il suo partner d’eccezione è il marito Ivan Guaragna, fotografo per passione specializzato in ritrattistica.

Insieme, trasformano il salotto di casa in un set fotografico, creando scatti che esaltano l’espressività, elemento cardine del loro lavoro. In questo articolo, Scarlett ci guida attraverso una selezione dei migliori ritratti realizzati da Ivan, tra primi piani intensi, chiaroscuri suggestivi e scenari mozzafiato del mare pugliese, raccontando come il suo percorso al DAMS e la complicità con il marito rendano ogni shooting un’esperienza unica e indimenticabile.

Mi chiamo Paola La Montanara, in arte Scarlett Fire, fotomodella professionista, cantante, autrice e sceneggiatrice.

Collaboro con fotografi di tutta Italia, dalla Puglia, mia Regione di origine, fino a Milano e Torino.

Tra i miei principali fotografi c’è mio marito, Ivan Guaragna, fotografo solo per passione: collaboriamo spesso, creiamo set, e lo assisto quando scatta con altre modelle, dando suggerimenti sulle pose soprattutto quando chiama ragazze alle prime armi.

Ivan è un amante della ritrattistica, scatta molto in studio (che poi non è altro che il salotto di casa allestito a set fotografico) e ogni tanto anche in esterna.

Essendo appunto un amante del genere portrait, l’espressività è alla base dei suoi scatti.

Ho fatto una selezione dei suoi scatti migliori con me, molto incentrati sull’espressività, fondamentale per una fotomodella.

Ogni fotografia deve essere in grado di comunicare qualcosa, rappresenta una sorta di fotogramma di una recitazione, e per una studentessa del DAMS come me, lo studio di cinema e teatro sono fondamentali per riuscire ad interpretare ogni shooting, rispondendo al meglio alle richieste dei fotografi.

In questi scatti selezionati dal portfolio di mio marito ci sono ovviamente molti primi piani, ma anche chiaro scuri (che ama molto), e qualche foto di uno shooting fatto nel nostro bel mare pugliese.

Amare la fotografia vuol dire anche sapersi adattare ad ogni situazione, infatti, ad ogni shooting a cui prendo parte, con qualunque fotografo, provo sempre una emozione differente, e ovviamente come si può ben immaginare, il massimo della complicità lo raggiungo proprio con mio marito.

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Marco De Vita incanta con una ballata esistenziale, “Il filo”

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Come Arianna fece con Teseo per sconfiggere il Minotauro nel labirinto, anche le nostre vite sono in fondo legate e alle volte addirittura appese ad un filo. C’è un filo invisibile che lega ogni cosa: i pensieri, i desideri, le coincidenze, gli amori che bruciano e quelli che salvano. Un filo che ha il sapore della speranza.

“Il Filo”, nuovo brano del cantautore Marco De Vita, scritto a quattro mani con Alessandro Hellmann, è una riflessione musicale e poetica sul mistero che ci abita e ci attraversa. Pubblicato in collaborazione con l’etichetta Artisti Online, il singolo è disponibile su tutte le piattaforme digitali dal 23 Maggio.

Musicalmente sospeso, quasi rarefatto, il brano si sviluppa con eleganza e delicatezza: un arrangiamento misurato, in bilico tra acustica ed elettronica, lascia spazio alla voce calda e intensa di Marco. La canzone procede come una preghiera laica, un inno alla vulnerabilità dell’essere umano, che si interroga senza pretendere risposte, ma trovando senso nel porsi domande.

Il testo è un susseguirsi di interrogativi esistenziali: “Che cos’è che ci muove? Che cos’è questo male fatto per il mio bene?” – frasi che scorrono come un mantra, attraversando amore, dolore, destino e meraviglia. “Il filo” diventa metafora di quel legame segreto che ci connette a qualcosa di più grande, che ci supera e ci accoglie, anche quando non lo comprendiamo.

Marco De Vita, autore e interprete dalla penna profonda, è un artista capace di fondere spiritualità e concretezza, emotività e intelletto. Con quest’ultimo singolo firma una delle sue prove più intense, portando l’ascoltatore dentro un paesaggio sonoro che è al tempo stesso intimo e universale.

Va ascoltato perché riesce a parlare all’anima senza retorica, e a toccare corde profonde con semplicità disarmante. In un mondo che ha fretta, “Il Filo” è un brano che invita a fermarsi, ascoltare, lasciarsi attraversare. Perché forse il senso non è nelle risposte, ma nella bellezza stessa delle domande.

BIOGRAFIA BREVE

Marco De Vita è un cantautore nato a Napoli nel 1979, cresciuto a Genova e attualmente residente a Roma. La sua passione per la musica nasce da bambino nel collegio “Casa dell’Angelo” di Genova, dove inizia a studiare pianoforte e a reinterpretare i brani dei suoi cantautori di riferimento, da Renato Carosone a Fabrizio De André, fino alle icone internazionali come Michael Jackson.

Negli anni, Marco si esibisce in teatri, eventi culturali e rassegne di rilievo, partecipando a concorsi nazionali come il Tour Music Fest, il Premio Raffaele Spasari, il Premio Lucio Dalla e Musica contro le mafie, dove ottiene ottimi riscontri.
Nel 2016 pubblica l’album autoprodotto Parliamone, arrangiato dal chitarrista Fabrizio Fedele, arrangiatore dei Foja ed ex componente degli Osanna.

Tra il 2022 e il 2023 porta in scena il tour Sogno Pianissimo con tappe a Genova, Roma e Napoli, e pubblica tre nuovi singoli:
🎧 Non aver paura
🎧 Le Parole
🎧 Pronti ad andarsene
I primi due arrangiati dal musicista Francesco Vitiello, che ha saputo valorizzare l’intensità emotiva dei brani con uno stile raffinato ed essenziale.

Il suo stile cantautorale unisce poesia, introspezione e riflessioni sull’attualità, con melodie che sanno farsi intime e universali. Dopo il successo del singolo Cani e gatti sociali, Marco torna oggi con il nuovo brano Il Filo, un’emozionante riflessione sull’amore, il destino e il mistero che ci lega a ciò che ci circonda.

Attualmente è al lavoro su un nuovo progetto discografico in collaborazione con il pianista ed arrangiatore Gino De Nicola, con cui sta sviluppando una serie di singoli dal forte impatto emotivo e sonoro.

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La scrittrice Melissa Pilotti ospite dell’Instituto Cervantes di Napoli mercoledì 4 giugno.

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La scrittrice Melissa Pilotti sarà ospite dell’Instituto Cervantes di Napoli, mercoledì 4 giugno alle ore 16.30. L’incontro – ad ingresso libero fino ad esaurimento posti – rientra nell’ambito del Corso di Traduzione Letteraria per l’Editoria realizzato in collaborazione con l‘Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Presso la sede partenopea dell’istituto di lingua e cultura spagnolo diretto da Ana Navarro – in via Chiatamone, 6G – Melissa Pilotti, editor della casa editrice Mondadori, dialogherà con Marco Ottaiano, direttore del corso, e l’ispanista Augusto Guarino. Tema di questo incontro sarà la figura dell’editor e ciò che rappresenta nel mondo editoriale.

L’editor è una figura chiave all’interno della casa editrice, lavora a stretto contatto con i testi, ma anche con gli autori, i traduttori, gli agenti e tutti gli altri professionisti coinvolti nella realizzazione di un libro. Durante l’incontro, Melissa Pilotti racconterà in cosa consiste concretamente il suo lavoro quotidiano: dalla lettura dei manoscritti alla valutazione delle proposte editoriali, dall’editing dei testi all’affiancamento dei traduttori in fase di revisione. Si parlerà di come si sceglie un libro da pubblicare, di quali competenze servono per fare questo lavoro, dell’importanza del dialogo e della cura nella costruzione di ogni titolo. L’editor è soprattutto un mediatore: tra testo e lettore, tra autore e casa editrice. Un lavoro fatto di ascolto, sensibilità e precisione. Spesso dietro le quinte, ma essenziale per far arrivare i libri nel modo migliore possibile al pubblico.

Melissa Pilotti lavora dal 2023 come junior editor per Oscar Mondadori, dove si occupa delle collane dei Classici, dei Moderni e della storica collana di poesia Lo Specchio. Dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Bologna e un Master in Editoria all’Università di Verona, ha maturato diverse esperienze nel settore editoriale, lavorando come editor e redattrice per altre case editrici. Vive e lavora a Milano.

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Il San Carlo nella serie “M – Il figlio del secolo” con i vfx di EDI Effetti Digitali Italiani |

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La serie evento sulla ascesa politica di Mussolini diretta da Joe Wright verrà premiata il 31 maggio come serie dell’anno ai Nastri D’Argento

Un’opera che non ha eguali in Italia, che regala emozioni visive dalla prima all’ultima inquadratura. Per la serie evento “M – Il figlio del secolo”, il regista Joe Wright si è affidato a EDI Effetti Digitali Italiani per la realizzazione dei vfx a supporto della narrazione sull’ascesa al potere di Benito Mussolini, interpretato magistralmente da Luca Marinelli.

Due anni di lavoro, dalla pre produzione alla stesura della sceneggiatura fino alla consegna finale, per il team di EDI supervisionato da Stefano Leoni, già vincitore di due David di Donatello per “L’incredibile storia dell’Isola delle rose” e “Freaks Out”, che ha lavorato a stretto contatto col regista. «L’obiettivo era essere il più analogici possibile, applicare una CGI molto integrata e non evidente. Il segreto è stato avere un approccio practical all’impostazione del lavoro sul set, lavorare con elementi reali, per poi manipolarli in vfx ma sempre partendo da elementi girati», ha spiegato Leoni.

Tra le scene più interessanti c’è quella girata al teatro San Carlo di Napoli, quando Mussolini tiene il discorso della Marcia su Roma. «Abbiamo girato realmente sul palco del teatro San Carlo, ma con un numero di comparse limitato. Il resto è stato fatto a Cinecittà, realizzando sia una set extension, perché il regista voleva un San Carlo maestoso e imponente, più grande, sia una folla enorme di camicie nere, come nelle foto storiche, girando su green screen tutti i layers e integrandole sulle immagini realizzate in precedenza a Napoli. Un lavoro grandioso».

In totale 8 puntate dense di effetti visivi, sempre delicati e integrati con le immagini reali, per la serie dell’anno ai Nastri d’Argento 2025 che sarà premiata proprio a Napoli il 31 maggio.

Tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati con la sceneggiatura di Stefano Bises e Davide Serino, prodotta da Sky Studios (Nils Hartmann), The Apartment (Lorenzo Mieli, Annamaria Morelli), Pathé (Ardavan Safaee) è andata in onda su Sky in Italia (ora disponibile su NOW) Uk e Irlanda, e distribuita da MUBI in Nord America, America Latina, Belgio, Lussemburgo, Turchia, India e Nuova Zelanda.

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Karate kid – Legends: Jackie Chan e Ralph Macchio, due rami dello stesso albero

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Jonathan Entwistle esordisce alla regia cinematografica con Karate kid – Legends, sesto capitolo del franchise nato negli anni Ottanta.

Li Fong, interpretato da Ben Wang, è un giovane che vive a Pechino e frequenta una scuola di kung fu, in cui eccelle particolarmente.

Il suo maestro è Mr Han, portato in scena da Jackie Chan, ma, dopo la tragica morte di suo fratello, il ragazzo abbandona la scuola per trasferirsi a New York insieme ala madre, incarnata da Ming-Na Wen, che ha trovato lavoro come dottoressa in un ospedale. Li Fong, giunto negli Stati Uniti, una sera entra nel locale Victory Pizza dove conosce Mia alias Sadie Stanley, che frequenta la sua stessa scuola e che è la prima persona con cui stringe amicizia. Suo padre Victor, ovvero Joshua Jackson, un tempo era un pugile molto promettente, ma ha molti debiti e deve dei soldi ad uno strozzino cui presta il volto Tim Rozon. Questi gestisce anche una palestra in cui si insegna karate, e il campione del dojo è Conor Day, interpretato da Aramis Knight , anche ex fidanzato di Mia.

Li Fong cerca di aiutare Victor a ripagare i suoi debiti in modo che non perda il locale, allenandolo per tornare sul ring, ma, allo stesso tempo, pensa di iscriversi al torneo 5 Buroughs, al quale partecipa anche Conor, con cui ha già avuto un duro scontro. Il considerevole inconveniente è che l’arte marziale richiesta è il karate, mentre Li è esperto di kung fu. Richiama quindi in America il maestro Han, che per questo motivo si rivolge a sua volta a Daniel LaRusso, il primo Karate kid, ancora una volta dai connotati di Ralph Macchio. Karate kid – Legends, ha un sapore retrò che genera la giusta combinazione tra passato e presente. Iconico, per esempio, il passaggio del brano Do ya think i’m sexy di Rod Stewart, anche se appena accennato, che contribuisce ad entrare nel mood del film di Jonathan Entwistle.

Le strade di New York, dove dai bassifondi si sconfina nel cuore di Manhattan nel giro turistico in cui Mia porta Li Fong sul suo motorino rievocando Vacanze romane di William Wyler, fanno il resto. Il lungometraggio adempie dunque in toto al suo dovere, riuscendo ad intrattenere e coccolando i vecchi fan mentre ne avvicina nuovi attraverso sequenze di combattimento di arti marziali ben coreografate e conti da saldare a suon di karate e kung fu. Gli insegnamenti del maestro Miyagi sono tramandati da Daniel LaRusso ed è significativa l’apertura del film con una situazione presa da Karate kid II – La storia continua… in cui il maestro giapponese mostrava al suo allievo i propri antenati, spiegandogli la connessione tra il karate e il kung fu praticato in Cina. Tale insegnamento per mezzo di Daniel LaRusso e Mr Han viene trasferito anche a Li Fong, ricordando l’emblematica frase “Due rami dello stesso albero”. Da non perdere la sorpresina conclusiva.

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In dvd Totò di notte n. 1 e Totò sexy

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In collaborazione con Surf Film, CG Entertainment (www.cgtv.it) riscopre su supporto dvd Totò di notte n.1 e Totò sexy, entrambi diretti dall’esperto in materia da schermo leggera Mario Amendola (Il giustiziere di mezzogiorno, Pasqualino Cammarata…capitano di fregata e Cuore matto…matto da legare nel lungo curriculum e con protagonista il principe della risata tricolore Antonio De Curtis spalleggiato dal torinese Macario.

Un dittico di pellicole nate negli anni Sessanta sulla scia dei cosiddetti mondo movie portati al successo nel 1962 da Mondo cane – che assemblava riprese documentaristiche e ricostruzioni per raccontare soprattutto raccapriccianti realtà del globo terrestre – ma anticipati tre anni prima da Mondo di notte di Luigi Vanzi, mirato a portare gli spettatori al cospetto di scenette sexy e siparietti osé per l’epoca nel descrivere la vita notturna di determinati locali.


Totò di notte n.1 (1962)

Musicisti ambulanti, il professore Ninì Cantachiaro (Totò) e il suo assistente Mimì Cocò (Macario) si ritrovano di punto in bianco dalle stalle alle stelle grazie ad un’ingente eredità ricevuta e decidono di andare alla ricerca di incarichi lavorativi frequentando svariati locali e assistendo ai più disparati spettacoli notturni del caso, tra danzatrici e commedianti, complessi musicali e spogliarelli… lasciando, però, il loro immancabile segno tragicomico.

Attraverso il montaggio di Jolanda Benvenuti atto a ritmare i vari sketch dei due protagonisti ai veri siparietti documentati (con artisti come Mac Ronay, Moa Tahi e Margaret Lee), questa pellicola di Amendola rimane impressa per la sua capacità di uniformarsi dal nulla costruendo con fare professionale un canovaccio scritto da Giovanni Grimaldi e Bruno Corbucci su soggetto degli stessi insieme a Castellano e Pipolo che intrattiene senza l’ausilio di una trama solida. E ad impreziosire il tutto provvede ovviamente la presenza scenica di Totò e Macario, i quali, insieme ad uno stuolo di comprimari accreditati e non (Gianni Agus, Lando Buzzanca, Mario Castellani, Nino Terzo), si destreggiano in maniera ottima; mentre i diversi show tirati in ballo di tanto in tanto e coreografati da Don Lurio completano la validità di un titolo che va considerato più in qualità di documento in sé che opera cinematografica a tutto tondo.


Totò sexy (1963)

Arrestati per contrabbando, i due musicisti Ninì (Totò) e Mimì (Macario) si ritrovano in cella, dove altri carcerati presto diventano spettatori delle disavventure raccontate dalla coppia di nuovi arrivati; i quali, in giro per il mondo, hanno visto di tutto e di più, dando il via, di conseguenza, ad una sequela di testimonianze riguardanti spettacolini e piccoli show provenienti da qualsiasi parte del pianeta.

Opera che rientra nel concetto di mondo movie anche più del suo predecessore, Totò sexy è un lungometraggio concretizzato proprio grazie ad immagini e siparietti scartati dal montaggio definitivo di Totò di notte n.1, qui riproposti innanzitutto per raggiungere il metraggio di pellicola necessario. Certo, il che non porta granché, alla fine dei giochi, ai risultati artistici dell’operazione, ma bisogna ammettere che la sua validità in quanto prodotto di intrattenimento il lungometraggio riesce ad averla nel mostrarci nuovamente Totò e Macario alle prese con divertenti sketch affiancati da altri buoni caratteristi (oltre ai già citati Agus, Buzzanca e Castellani, abbiamo Mimmo Poli e Franco Giacobini); più la presenza di veri artisti che si rendono protagonisti di vari spettacoli notturni, tra balletti, spogliarelli ed esibizioni canore, tra le quali quella di un giovanissimo Gianni Morandi che regala un piccolo cameo cult eseguendo una canzone intitolata Penelope.

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L’amico fedele: le quattro zampe di Sigrid Nunez dal libro allo schermo

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La trasposizione sul grande schermo del bellissimo libro The friend – L’amico fedele, scritto dalla sagace ed estrosa romanziera statunitense Sigrid Nunez, che con l’intenso apologo sul suicidio assistito Attraverso la vita ha ispirato all’ambizioso regista spagnolo Pedro Almodóvar l’applaudito mélo introspettivo La stanza accanto, vincitore del Leone d’oro all’ottantunesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, richiede una notevole maturità di linguaggio.

Tanto sul versante della scrittura per immagini, padroneggiata in tandem dietro la macchina da presa da Scott McGehee e David Siegel per cogliere appieno il mosaico di stati d’animo dell’autrice, quanto in merito all’alta densità lessicale. Dispiegata allo scopo di esibire ed esplorare temi diversi ma al contempo connessi gli uni agli altri.

Dall’elaborazione del lutto all’atroce incognita dell’esclusione innescata nella vita degli affetti dalle persone amate che decidono anzitempo di coniugare l’esistenza all’imperfetto. Dal rapporto tra docente e discente, riguardo la trasmissione del sapere sulla tecnica argomentativa necessaria a caricare di senso qualunque testo redatto con cognizione di causa, ai batticuori scanditi dal miglior amico dell’uomo. Del mentore, per la precisione, della scrittrice Iris. Alter ego dell’avvertita e ironica Sigrid Nunez. Avvezza a mettere parecchia farina del suo sacco. Sull’esempio della compianta collega Karen Blixen, autrice del best seller La mia Africa convertito in un memorabile film acchiappa-Oscar, nella convinzione che raccontare storie che esulano da qualsivoglia scontatezza ricavando linfa dalla conoscenza intima della materia trattata costituisce una sorta di antidoto contro lo spasimo attanagliante. Al pari dei richiami citazionistici cari alla cultura postmoderna. Per cui quando Iris, senza marito né prole, è spinta, dapprincipio obtorto collo, ad accogliere in casa, nel cuore della Grande Mela, l’alano chiamato Apollo, rimasto orfano del guru Walter, una volta tradotto in agghiacciante prassi il chiodo fisso delle teorie su come farla finita, il pensiero va subito a illustri precedenti. Nel campo della letteratura e in quello della fabbrica dei sogni. Con gli incubi ad occhi aperti rappresentati dal ricordo della visione di White God – Sinfonia per Hagen ed ergo dell’abbruttimento dell’affabile cane meticcio del titolo in lotta coi perfidi alfieri della razza pura. Mentre Hachiko – Il tuo migliore amico resta la best practice per eccellenza nell’interazione simbiotica basata sulla fiducia reciproca. A dispetto dei modi opposti di concepire l’amore. In cabina di regìa Scott McGehee e David Siegel tendono ad anteporre l’instaurazione passo per passo di quel tipo di fiducia che trascende le differenze con l’ausilio del tempo a favore alla forza significante d’un richiamo citazionistico mai fine a se stesso. Giacché parte integrante dell’approccio dell’autrice col mondo che la circonda e talora la spiazza. Mentre in altri frangenti le scalda il cuore. Al contrario di Almodóvar, che ne La stanza accanto impreziosisce il respiro narrativo dell’assunto coi vari rimandi a pellicole inobliabili ricavate da libri immortali, The Dead – Gente di Dublino in particolare, benché sconfessi il coro di voci imperanti nella pagina scritta per focalizzare l’attenzione degli spettatori sulla relazione della protagonista con l’amica di gioventù ammalata di cancro decisa a interrompere le cure, la scelta di ridurre al lumicino il fiume in piena dei riferimenti alla Settima Arte che accompagnano step by step l’evolversi degli eventi trascina l’ovvio tormentone della voice over di Iris lungo i binari dell’infeconda modalità esplicativa.

Ben lungi dal depurare la realtà colta dal vivo, concernente lo spauracchio di finire per strada perché nell’appartamento dove ha intrufolato di soppiatto l’inquieto Apollo non è permesso tenere cani, da qualsivoglia scoria d’un surplus evocativo. L’apparente rigore formale e strutturale del racconto, che dalla funzione funebre in poi si affida invero a un mix di scandaglio ambientale ed esame comportamentistico piuttosto sbrigativo se non superficiale, cela alla bell’e meglio la miopia contenutistica. Nei confronti del mondo degli intellettuali, vampirizzato dall’ipocrisia della gentilezza di mera facciata, col risentimento che circola così nell’aria viziandola, nonché dell’idonea definizione pratica del legame di appartenenza e protezione di Apollo con Iris. Incapace lì per lì divenirne il nuovo punto di riferimento. Le irruzioni nel quotidiano d’entrambi, con le impertinenti impuntature di Apollo riversate in ridicole ed esilaranti contingenze per mezzo dei siparietti privi, stringi stringi, di mordente che cedono spazio alle componenti manieristiche dell’intesa stabilita da Iris toccando con mano l’attitudine dell’alano a dare sicurezza senza pretendere granché in cambio, stanno in piedi alla carlona. Il ribaltamento del sentimento d’incertezza iniziale nel sentimento di sicurezza cementato dall’affetto schietto di Apollo ricava assai poca linfa dalla punta di furbizia con la quale L’amico fedele trae partito in filigrana dai capolavori di Woody Allen, da Harry, ti presento Sally e da Qualcosa è cambiato. La sensazione di déjà vu toglie viceversa verve alla fragranza della spontaneità della sicurezza emotiva di Apollo che persuade tra le righe l’inquieta padrona a non cercare più conferme per motivare i propri accidiosi studenti. Appaiono maggiormente convincenti il rapporto col custode dell’immobile avverso alla dedizione istintiva di ciascun cane che si affeziona all’istante ad Apollo e il colloquio con l’accondiscendente psicologo. Che consente alla romanziera in crisi ispirativa di conservare l’appartamento certificando il sostegno ricevuto da Apollo per non pagar dazio all’alienazione, alla gogna della solitudine, all’impasse del blocco dello scrittore. Il prosieguo perde colpi col trattamento sbrigativo scelto al posto dell’accorta fusione di fascinose lentezze ed eloquenti silenzi per carpire le attese percorse da attimi di panico per l’animale domestico disteso sulla spiaggia fuori porta.

Il sospiro di sollievo, sulla salute dell’impagabile amico del cuore che zampetta lontano da New York in un contesto panteista che rimane uno sfondo inerte, stenta quindi ad acquisire l’atmosfera all’inizio ascetica, in seguito concitata, col fiato in gola, nel confronto di vitale e funebre sprovvisto del supporto della geografia emozionale. Che nel libro riesce ad appaiare il legame del mare, a prima acchito abbastanza scontato, al suono delle rondini, degli uccelli, dei volatili in miniatura che affollano la debita evasione dal teatro della chiacchiera e dai limiti del cinema da camera. Girato tra quattro mura. Il teatro a cielo aperto giustapposto sul grande schermo agli interni degli scribacchini insicuri ed egoisti, che hanno al dunque parecchio da imparare dall’accettazione incondizionata del mondo animale di cui non si trova traccia nei volumi consultati dagli intellettuali a corto d’empatia, porta poca acqua al mulino del risvolto filosofico ed esistenziale. Centrato solo ed esclusivamente dall’interludio onirico in cui la scrittrice impersonata con considerevole destrezza psicotecnica ed emotiva dall’avvenente Naomi Watts accusa d’egoismo il redivivo maestro suicida. Incarnato dal valoroso decano della recitazione a stelle e strisce Bill Murray sulla scorta d’un’opportuna precisione di semitoni. Peccato che al dunque L’amico fedele preferisca gli accenti enfatici, stretti d’assedio nell’inane incombenza di riempire con la roboante colonna sonora le falle riscontrabili nell’effigie dell’egemonia dell’alchimia raggiunta sulla disarmonia celata dalla velleità del galateo, ed esponga il connubio tra amore e devozione ai colpi di gomito d’una qualunque soap opera strappalacrime. L’auspicio ivi congiunto consiste nel poter presto vedere in sala l’opera summa d’un autore con la “a” maiuscola in grado di tradurre dalla pagina scritta al buio della sala il carattere d’ingegno creativo della romanziera legata alla complessa gamma dei sentimenti. Che, anziché riverberare l’improntitudine di chi monta inutilmente in cattedra, riflettono la lectio magistralis impartita dall’ordine naturale delle cose.

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Fabrizio Nitti torna con “Testimone del cambiamento”, brano inedito tra intimo e sociale

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Fuori il video di “Testimone del cambiamento”, il nuovo singolo inedito di Fabrizio Nitti, scritto con Paolo Agnello che vede ancora agli arrangiamenti Danilo Ballo, il brano è in radio e disponibile anche in digitale.

Sono stato e sono testimone di tutto quello che è accaduto e accade intorno a me, nella mia vita e in una certa misura nel mondo – afferma Fabrizio Nitti – questo brano è lo sguardo pragmatico di un uomo sul mondo consapevole della propria collocazione, sulla linea del tempo che scorre, da una dimensione intima e personale verso una prospettiva sociale e collettiva. Una esortazione a sintonizzarsi con le nuove istanze di una società che viaggia verso il futuro. Una lettura del cambiamento che porta verso nuove direzioni a volte positive altre volte verso la deriva dell’umanità. Un invito quindi alla riflessione sugli scenari di alcuni cambiamenti di questi ultimi mesi tra guerre e ideologie riemergenti, fortemente discutibili.

Guarda il video

Nel video, da un’idea di Fabrizio Nitti e del regista Gregory Ezechieli, l’artista percorre una strada che rappresenta il percorso della vita che ogni persona ha fatto e che deve ancora fare. La vita ci fa essere testimoni di quello che accade. Alcune immagini evocative mettono in evidenza i cambiamenti che vediamo nella quotidianità di tutti i giorni e nei fatti della storia dell’umanità.

Fabrizio Nitti, nato ad Asti nel ‘71, vive a Genova da sempre. Nel 1985 conosce Paolo Agnello formando un duo con cui parteciperà a più edizioni del Festival di Castrocaro. Nel 1997 insieme vincono l’Accademia di Sanremo, portando sul palco “Genova” con cui gareggiano poi a Sanremo Giovani. L’anno dopo, nel 1998, partecipano al 48° Festival di Sanremo con “I ragazzi innamorati”. Nel 2000, esce Alkè”, primo album. Nel 2001, esibizione live alla Sala Nervi,  Città del Vaticano, alla presenza di Papa Giovanni Paolo II. È il 2002, secondo posto al Premio Lunezia, con “Liguria”Nel 2003, ancora insieme vincono il Premio Città di Recanati con Un giorno di ordinaria follia”. Nel 2004 Fabrizio decide di intraprendere la carriera da solista continuando a scrivere con Paolo Agnello. Nel 2005, con Voglio anche te” e nel 2006 con Liguria”, partecipa al Premio Umberto Bindi, classificandosi secondo ad entrambe le edizioni. Nel 2014 ha interpretato Noi due” di Umberto Bindi contenuto nel disco tributo Il mio mondo solidale”.

Nel2017 arriva l’album, “Una ragione per essere qui”, con gli arrangiamenti di Stefano Cabrera dei GnuQuartet e del chitarrista Enrico Pinna, che contiene anche Liguria”, manifesto d’amore verso la sua terra, “Una ragione per vivere”, “Emanuela”, dedicato alla poliziotta uccisa a Palermo nell’attentato a Paolo Borsellino, Vedrai Vedrai”, omaggio a Luigi Tenco e E penso a te”, in cui suona Massimo Luca, storico chitarrista di Lucio Battisti. Nel 2020 scrive e pubblica “Resto a casa” per promuovere e sensibilizzare le persone a fare donazioni agli Ospedali della sua Genova. Il 12 maggio, in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere, viene lanciata, con il patrocinio di CGIL Nazionale“Un uomo e una donna come te”. A ottobre, sempre nel 2020, esce “E Tu Vivi”.  A sei mesi dall’ultimo inedito il 30 aprile 2021 arriva “Libero come l’amore” a cui segue il 22 ottobre l’album “Tracce di me” che raccoglie i brani fondamentali della sua carriera con il lancio dell’inedito “Al di là del ponte” dedicato alla tragedia per il crollo del ponte della sua città. Nel 2023 arriva “Il Profumo e l’Amore”. Nel 2024 ha pubblicato “Il Suono”, omaggio alla musica e alla radio. Per il 2025 sempre con gli arrangiamenti di Danilo Ballo, arriva “Testimone del cambiamento” un brano che invita alla riflessione sul periodo che il mondo sta vivendo.

Fabrizio Nitti è su: Facebook | Instagram

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Mani nude: la carezza nel pugno di Mauro Mancini

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Mettere una carezza in un pugno, come recita il noto singolo di Adriano Celentano pubblicato in Italia nel 1968, equivale per l’alacre regista capitolino Mauro Mancini a seguire le orme d’illustri colleghi stranieri. Dal compianto punto di riferimento statunitense Nicholas Ray, autore del mirabile cult-movie generazionale Gioventù bruciata, al visionario filmmaker danese Nicolas Winding Refn. Avvezzo ad appaiare la concitazione dell’azione alla contemplazione della poesia.

Lo scopo precipuo in Mani nude dell’attento Mancini, ben lungi comunque dal pagare dazio alla deleteria accidia delle soluzioni espressive attinte all’estro altrui senza mettere parecchia farina del suo sacco nell’assunto ricavato dall’omonimo libro dell’eclettica romanziera milanese Paola Barbato, consiste nel proseguire ancora più compiutamente l’esplorazione dell’impulso predatorio e vendicativo insito in ogni persona portata già ad effetto nel previo spaccato antropologico ed etnografico Non odiare.

Risulta subito incisivo il reiterato ricorso alla correzione di fuoco nella soggettiva sfocata del sedicenne Davide, un ragazzo di buona famiglia sequestrato dall’empia associazione a delinquere limitrofa dedita ai combattimenti clandestini, dinanzi all’algido sguardo da squalo dell’addestratore soprannominato Minuto. Perché quand’era un lottatore nessun avversario riusciva a resistergli oltre. Sebbene emerga un senso di déjà vu alieno al carattere d’ingegno creativo degli Autori con la “a” maiuscola abituati a esporre una loro idea che esula dall’ordinario sul tema dispiegato dall’interazione tra azione e contemplazione attraverso una distintiva ed emblematica cifra stilistica, la sospensione dell’incredulità cattura subito l’attenzione di qualsivoglia platea. Il clima di mistero che affiora sin dall’incipit in merito agli scheletri nell’armadio del ragazzo appartenente all’alta borghesia costretto ad abrutirsi pur di sopravvivere rientra nei colpi di gomito dei soliti noir girati sull’esempio di quelli americani. Sprovvisti quindi delle apposite varianti necessarie ad approfondire le paure ancestrali legate all’orripilante scoperta dell’alterità, i rapporti interpersonali contraddistinti dalla predominanza dell’adagio latino “Mors tua, vita mea” sulla mutua solidarietà e il mesto processo di disumanizzazione ivi congiunto. L’adattamento per il grande schermo redatto dallo stesso Mauro Mancini insieme all’amico sceneggiatore Davide Lisino, sulla base del proficuo pluralismo d’ambedue i punti di vista, antepone alle tre parti con cui l’autrice letteraria ha suddiviso il crudo romanzo di formazione, insignito del Premio Scerbanenco, due atti.

Il primo imperniato sul dinamismo dell’azione e sull’ineluttabile processo di disumanizzazione. Il secondo basato sulla contemplazione innescata dal processo di umanizzazione. Specie da parte del refrattario Minuto. Impersonata dal sorprendente Alessandro Gassmann sulla scorta dell’opportuna ed erudita sottorecitazione alla Dirk Bogarde. Che richiama alla mente pure l’impeccabile misura interpretativa di Anthony Hopkins in Quel che resta del giorno. Per cui un impercettibile movimento del labbro o delle sopracciglia basta a creare una sorta di Tsumani. Accanto a lui Francesco Gheghi, elettrizzato dal confronto col mentore dentro e fuori la compenetrazione nei rispettivi ruoli, incarna la multipla palingenesi di Davide, che sceglie il nome di battaglia di Batiza, sullo slancio d’un radicalismo mimetico degno dei mostri sacri dell’Actors Studio. Allo spettacolo di secondo piano della psicotecnica recitativa lo spettacolo di prim’ordine della regia replica accostando alla tambureggiante colonna sonora di Dardust, un compositore coi fiocchi all’esordio nella fabbrica dei sogni, la forza significante dei rumori diegetici. Spesso appena sussurrati. Talora stranianti. In sottofondo. Al pari dei suoni emessi dalla nave-prigione diretta verso sempre nuovi incubi ad occhi aperti delle interminabili lotte all’ultimo sangue in qualunque latitudine dello Stivale. Sono però i respiri, impreziositi dal lavoro di sottrazione che toglie al visibile per aggiungere alla potenza dell’invisibile, ad alzare definitivamente l’asticella. Ai superficiali rimandi d’ascendenza fumettistica al manga L’uomo Tigre, coi futuri campioni di wrestler sottoposti nell’età verde ad allenamenti massacranti dalla cinica yakuza dedita all’iniqua egemonia della materia sullo spirito, corrisponde uno scandaglio maggiormente in profondità degli interludi di quiete. Che non esortano il pubblico dai gusti semplici ad applaudire l’energia dello scontro, esacerbato dal senso di conservazione, né lo stato di fibrillazione o il delirio d’onnipotenza ghermiti dagli spettatori repressi. Abituati a godere per interposta persona. Bensì sprona alla riflessione i patiti dell’azione. Affinandone il gusto.

Ed è per questo motivo che Mani nude andrebbe mostrato nelle scuole. Anche se la dinamica del campo e controcampo, coi nodi che vengono al pettine step by step, non risulta esente da qualche segno d’ammicco. Anche se il montaggio alternato tra passato e presente, quando viene svelato l’arcano concernente gli scheletri nell’armadio del figlio di papà trasformato in killer, finisce per privilegiare la retorica della modalità esplicativa all’antiretorica volta ad anteporre il carattere misterioso dell’autentica poesia al gioco geometrico dell’intrigo. La prova del vetusto Renato Carpentieri nelle vesti del boss dell’organizzazione criminale, che converte l’adolescenza ad agnello sacrificale per ridurre il rischio d’insuccesso e riempirsi le tasche, sciorina il garbo speculare del finto signore. Intento a snudare, anziché i migliori angeli dell’indole cara ad Abramo Lincoln, i peggiori demoni. Celati dalle buone maniere. La giustapposizione degli opposti trascende quindi i discorsi strettamente informativi e didattici sulla violenza che ammalia od opprime. Alla stregua degli squarci surreali. Non sempre singolari. Giacché conseguiti da modelli inarrivabili. La facciata del contegno, i nervi tesi sino allo spasimo, la maschera di Minuto d’impenetrabile ruvidezza dapprincipio appena scalfita, in seguito capace di cedere spazio a un pianto catartico, con la ruga glabellare dell’addestratore di buccia dura che sparisce per magia, rientrano nelle soluzioni narrative ed espressive scevre dai plagi camuffati da omaggi. L’enigma del buio finale che riavvolge il nastro, in attesa d’un respiro eleggibile ad anelito di speranza, veicola il climax di Mani nude, a dispetto degli schemi triti e ritriti, dall’isteria figurativa dell’apologo febbrile sul barbaro istinto di sopraffazione alla sublimazione d’assoluta castità della contemplazione.

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Bloom: il topo di biblioteca di Sarah Cerabona ed Elizabeta Keci arriva in libreria

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“C’era una volta. (O forse no.) Tutte le storie iniziano così, e a chi non piace una storia? A Bloom sicuramente sì. Ah, e chi è Bloom? Un topolino curioso, che si sente a casa nella vastità di una biblioteca… è lì che si rifugia quando il mondo bussa”.

Bloom è un topo di biblioteca, Si muove in punta di piedi tra scaffali colmi di volumi impolverati, custode silenzioso di ogni libro e dei mondi che custodiscono.

Tutti si rivolgono a lui per un consiglio, perché sa sempre quale storia può toccare il cuore. Chi entra nella sua biblioteca, chi apre un libro, ha sempre qualcosa da raccontare: un ricordo, un sogno, un universo da esplorare, un viaggio interiore da intraprendere.

In fondo, è questo il potere delle storie: farci sognare e portarci lontano.

Bloom – Topo di biblioteca è il nuovo libro illustrato edito da Bakemono Lab, nella collana Makkuro.

La storia è firmata da Sarah Cerabona, mediatrice interculturale, laureata in lingue e progettazione sociale. I disegni sono di Elizabeta Keci, illustratrice e animatrice 2D formata all’Accademia di Belle Arti di Urbino, dove si è laureata in Edizioni e Illustrazione per la Grafica d’Arte.

Per le due autrici Bloom – Topo di biblioteca è un invito a perdersi (e magari ritrovarsi) tra le sue pagine.

BLOOM – TOPO DI BIBLIOTECI

Autrici: Sarah Cerabona, Elizabeta Keci

Copertina: Elizabeta Keci

Edtitore: Bakemono Lab [https://bakemonolab.it/]

Collana: Makkuro

Data d’uscita: 15 maggio 2025

Pagine: 40, illustrazioni b/n

Formato: Cartonato, 15×15

ISBN: 9788894826784

Prezzo di copertina: 16 euro

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