Capolavoro analizzato nel libro “Marco Ferreri, l’uomo contro” del giornalista Emanuele Pecoraro
Si può morire di cibo? La domanda sorge spontanea, soprattutto in una società opulenta come la nostra dove spesso si mangia anche più del necessario, si conduce una vita sedentaria e dove da mattino a sera ci vengono propinati continuamente programmi televisivi completamente incentrati su succulenti piatti da preparare in poco tempo.
Eppure c’è stato chi ha portato questo tema alle più estreme conseguenze, seppure nella finzione cinematografica. Ho avuto modo di approfondire questo argomento nel mio ultimo libro: “Marco Ferreri, l’uomo contro” (Lithos Editrice), un omaggio a quasi venti anni dalla scomparsa di uno dei registi più cinici, graffianti e grotteschi che la storia del cinema abbia conosciuto. Tra i suoi film più rappresentativi trova un posto d’onore “La grande abbuffata”, presentato al Festival di Cannes del 1973. Il lungometraggio, girato a Parigi presso una villa in Rue Boileau, è la storia di quattro uomini che, annoiati, pensano di togliersi la vita, chiudendosi in una casa e mangiando senza soluzione di continuità fino, uno alla volta, al tragico epilogo: Ugo (Tognazzi), proprietario di un ristorante e grande chef, deciso a farla finita forse per problematiche coniugali; Michel (Piccoli), produttore televisivo dalla personalità ambigua, demotivato a sua volta, dal fallimento del suo matrimonio; Marcello (Mastroianni), pilota dell’Alitalia, smanioso di sesso, sconvolto da problemi di impotenza e infine Philippe (Noiret), importante magistrato reso fragile dal rapporto con la sua “castrante” balia d’infanzia che ancora lo condiziona, soprattutto nel rapporto con le donne. I quattro si recano insieme in macchina alla villa di Philippe, nella quale l’ignaro guardiano Ettore ha già preparato le scorte di cibo che serviranno al proprietario di casa e ai suoi ospiti per uccidersi. Una volta soli, i quattro cominciano la loro abnorme mangiata, venendo “disturbati” il giorno dopo dall’arrivo di alcuni scolari in visita alla villa per motivi didattici: vedere da vicino un albero di tiglio sotto il quale il poeta Boileau era solito sedersi. I quattro acconsentono alla presenza della scolaresca, accompagnata dalla formosa insegnante Andrea (Ferreol), che viene peraltro invitata da loro a cena per la stessa sera. Per allargare il numero delle presenze femminili, vengono contattate anche tre prostitute. Andrea, intuendo le finalità dei quattro uomini, decide tacitamente di dar loro una mano. Il primo a spirare è Marcello che, dopo aver tentato invano di supplire all’impotenza col mangiare, in seguito all’esplosione del wc che lo travolge, abbandona la villa di notte, mentre imperversa una bufera, rimanendo congelato a bordo della sua auto. Gli amici ne sistemeranno il corpo, ben visibile, nella cella-frigorifero, per evitare di commettere il reato di occultamento di cadavere. Dopo Marcello è la volta di Michel che, vittima di violente crisi meteoriche e stipato di succulente pietanze all’inverosimile, si accascia sul terrazzo. Gli altri lo sistemano nel frigo accanto a Marcello. Poco dopo tocca ad Ugo, che s’ingozza, fino a morirne, di una prelibatezza a base di tre tipi diversi di fegato, a forma di cupola di San Pietro. Ultimo ad andarsene è il diabetico Philippe, sulla panchina sotto il tiglio di Boileau e tra le braccia di Andrea, dopo aver mangiato un dolce a forma di seno preparato dalla maestra. Il film termina con l’invasione di alcuni cani attratti dalla carne lasciata ancora appesa sulle piante.
In questa pellicola Marco Ferreri mette in scena una sorta di crapula interiorizzata: mangiare fino a morire! Il film venne platealmente fischiato al Festival di Cannes (anche se vinse un premio) e tagliato dalla censura per le scene di sesso e di “volgarità” (come quella in cui esplode il WC di uno dei bagni della casa, inondando di feci la stanza). Ciò nonostante riscosse un successo di pubblico immediato ed enorme. A seconda delle opinioni venne definito di volta in volta: “il film più ideologico di Ferreri” (Adelio Ferrero), “un monumento all’edonismo” (Luis Buñuel), “specchio delle verità come eccesso” (Maurizio Grande). Per la sgradevolezza e la forza eversiva delle tematiche trattate, “La grande abbuffata” fu inserito a posteriori in una ideale “trilogia della degradazione” insieme a “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci e a “La maman et la putain” di Jean Eustache. Il grande Pier Paolo Pasolini definì il lungometraggio: “corpi colti in una sintesi di gesti abitudinari e quotidiani che nel momento in cui li caratterizzano li tolgono per sempre alla nostra comprensione, fissandoli nella ontologicità allucinatoria dell’esistenza corporea”. Non a caso “La grande abbuffata” sarà accostata a “Salò o le 120 giornate di Sodoma” dello stesso Pasolini, prima e ultima pellicola (a causa della sua prematura scomparsa) di un progetto di “trilogia della morte”. In effetti sono molte le analogie tra “Salò” e il film di Ferreri. Ispirato dai testi del marchese De Sade e dalla “Divina Commedia” di Dante, Pasolini prefigura un consumismo sfrenato dagli esiti nichilisti, un genocidio culturale dove ad aver ucciso il corpo trionfante del sottoproletariato delle borgate romane e dell’Italia stessa hanno contribuito il potere democristiano, la borghesia, il cattolicesimo, la scolarizzazione e gli stessi mass-media. Il duca, il vescovo, il banchiere e il giudice, ovvero i quattro “signori” nazifascisti aderenti alla Repubblica di Salò, altro non sono che l’espressione di un pensiero nietzschiano dove la vita si sviluppa a spese di un’altra vita. I quattro protagonisti del film di Ferreri incarnano altrettante figure metaforiche come il potere, l’arte, il cibo e l’amore borghese: mangiando senza freni, in una villa nella quale si riuniscono, il perverso sistema ideologico che rappresentano viene eliminato attraverso le scorie vitali, riducendo la vita alle funzioni più elementari. La depressione e il senso di inutilità che ne consegue possono essere salvati soltanto dal genere femminile, legato all’esistenza per missione biologica.
«Basta con i sentimenti, voglio fare un film fisiologico!» disse Ferreri a proposito de “La grande abbuffata”. Proprio questo lungometraggio contiene una dura critica al consumismo. I bisogni e gli istinti di base, ripuliti per assecondare le esigenze sociali, diventano routine e necessitano di “specificità” per essere apprezzati. Ma la ricerca della diversità a tutti i costi comporta la rinuncia all’utilità, sfociando ineluttabilmente nella noia. I quattro convitati nella villa parigina rappresentano altrettante metafore: la giustizia (Philippe), lo spettacolo (Michel), la cucina (Ugo), il sesso (Marcello). Ed è proprio la contestata ideologia borghese che viene semplificata alle funzioni elementari: mangiare, digerire, dormire, bere, copulare, orinare, defecare. Ferreri è al top del suo feroce humour nero. Tutte le morti seguono un percorso di morte che, partendo dall’omicidio premeditato, passa per l’incidente e approda al suicidio volontario. E per colpire ancora più perfidamente le sue vittime, Ferreri fa precedere il suicidio da un supplizio: è una escalation di violenza che si rivolge sempre più direttamente contro il criminale stesso.
Emanuele Pecoraro
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