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End of justice: Nessuno è innocente, “Denzel Washington Esquire Oscar”

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Secondo lungometraggio diretto da Dan Gilroy (Lo Sciacallo – The nightcrawler con Jack Gyllenhaal), End of justice: Nessuno è innocente vede protagonista Denzel Washington nei panni di un eccentrico un’avvocato che si presenta a tutti con il nome di Roman J. Israel Esquire. Esquire, come ci racconta nel film, è un titolo speciale che si trova sopra il gentiluomo e sotto il cavaliere.

Sicuramente, una definizione corretta per giudicare la performance dell’attore sarebbe “Denzel Washington Esquire Oscar”, dove aggiungiamo il nome della simbolica statuetta, in quanto il film gli è valso l’ennesima nomination, pur avendo avuto la sfortuna di capitare nella edizione in cui il Churchill di Gary Oldman non poteva non vincere.

Roman J. Israel  lavora da oltre vent’anni in uno studio legale dove tutte le cause sono discusse in aula dal suo socio, mentre lui prepara in maniera meticolosa tutto il materiale per affrontare i casi, spesso lavorando per clienti che non sono in grado di pagare, ma necessitano di una difesa.

Roman è colui che studia i casi, prepara tutto, conosce a memoria l’intero sistema giudiziario; in questo caso parliamo del diritto penale americano, profondamente diverso dal nostro. Ma il vero protagonista della vicenda non è un processo o le aule dei tribunali come nei classici legal thriller, bensì Roman J. Israel Esquire stesso.

Un personaggio affetto da un leggera sindrome di savant (una malattia che, a fronte di alcuni ritardi cognitivi che presenta una persona, sviluppa abilità particolari e sopra la norma in un settore specifico), come intuisce George Pierce, il capo dello studio legale (interpretato da un perfetto Colin Farrell), il quale, conscio delle sue incredibili capacità e conoscenze legali, assume Roman J. immediatamente dopo che il proprio socio viene colpito da una grave attacco di cuore.

Il personaggio di Roman  sembra essere rimasto ancora agli anni Settanta, nella Los Angeles dei giorni nostri. Vive da solo, veste malissimo, porta una vecchia capigliatura afro, fruisce dell’I-pod con delle vecchie cuffiette del primo walkman Sony, la sua  casa  è piena di vinili e tomi legali imbrattati da post-it. Si muove con i mezzi pubblici, in una città che, per estensione, necessita quasi obbligatoriamente dell’uso dell’automobile.

Ma, a causa della sua sindrome, Roman J. Israel è un  genio a livello legale, conosce a memoria tutti i codici civili e penali e ha preparato un gigantesco dossier per riformare il sistema penale giudiziario penale americano, al fine di renderlo più equo. Un sistema penale che prevede che la maggior parte dei casi non vengano mai discussi in aula, favorendo l’accordo con pene ridotte e non,  anche per molti casi di conclamata innocenza.

End of justice: Nessuno è innocente ci trascina rapidamente nel mondo del protagonista, fatto di tante piccole e grandi difficoltà, fino a condurci al vero cuore della storia, quello in cui lui deve scegliere tra un facile guadagno, che può risolvere i problemi scatenati da un suo maldestro tentativo di aiutare un importante cliente, o la via dell’onestà.

Senza anticipare altro della trama, l’analisi che compie Washington insieme a Gilroy lascia molto da riflettere allo spettatore. Il dilemma morale di mantenere i propri principi morali contro quello di una vita più semplice ed agiata conduce il personaggio ad uno scontro  con se stesso.  Certamente, un film da far vedere a tutti i nostri politici in modalità “Arancia Meccanica”. Per quanto riguarda, invece, i semplici spettatori in cerca di due ore di serio intrattenimento, un prodotto che soddisfa sotto tutti i punti di vista.

 

 

Roberto Leofrigio

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