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Recensione: Quello che non so di lei, Roman Polanski indaga il mistero dell’atto creativo

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Un fantastico avvicendamento tra Emmanuelle Seigner e Eva Green; un vorticoso scorrere di situazioni e un’incessante suspense che monta con gradualità, senza mai ricorrere a colpi di scena improvvisi, facendo sprofondare lo spettatore in un’atmosfera di crescente inquietudine.

Prima ancora di entrate all’interno dell’ultimo lavoro dell’infaticabile Roman Polanski, Quello che non so di lei, ciò che è necessario segnalare è la raffinatezza della messa in scena, laddove la maestria del regista polacco, naturalizzato francese, impedisce al film di deflagrare nei toni e nei cliché tipici di tanto cinema cui ormai siamo assuefatti.

Lavorando a stretto contatto con Olivier Assayas (il celebre cineasta, autore di Qualcosa nell’aria, Sils Maria, Personal Shopper e dell’indimenticabile Irma Vep), che ha sceneggiato il romanzo di Delphine de Vigan, Da una storia vera, Polanski costruisce un’opera che è ‘cinema’, nel senso che, pur non  avendo proposto, in fin dei conti, alcunché di nuovo, riesce a provocare in chi guarda una consistente quota di godimento, trascinandolo nella piega in cui si ‘arrotola l’immagine’, in quel punto cieco a partire da cui prende forma il visibile. Vedendo Quello che non so di lei, l’adagio ghezziano contenuto nel capitolo La fortuna critica di Opere di Carmelo Bene torna a riempirsi di pregnante senso: “il cinema ruota, gira, cade, non è riflesso di nulla (si può sospettare semmai il contrario), merita di essere chiamato nel modo slittato in cui lo nominano alcuni bambini: cì-mena”.

Polanski incarna la meravigliosa risultante di tutto il suo cinema, del suo ‘essere cinema’, e, quindi, per lui fare un film vuol dire tornare a pensare l’eccedenza dell’immagine, dando adito ad una nuova e sempre necessaria riflessione, pur essendo assai consapevole dell’impossibilità di colmare uno scarto che è inesauribile e che ogni volta convoca ad innescare un movimento cui non si può resistere. Cosa c’è di più cinematografico dell’emersione di un doppio, di un alter ego che prende lentamente forma, sfuggendo al dominio della ragione? Elle (Lei) è un’alterità che ci riguarda, quel qualcosa di noi che insiste, un’ostinazione con cui, prima o poi, non si può evitare di fare i conti. Appare all’improvviso, è una visione che interrompe la quiete dell’ordine simbolico, laddove per una scrittrice l’inerzia costituisce la morte della creatività.

Delphine (Emmanuelle Seigner) è costretta, in un certo senso, a mettersi nei guai, a farsi travolgere dal tumultuoso divenire della vita. Le sue mani che esitano in prossimità della tastiera, dando corpo al ‘blocco dello scrittore’, restituiscono esemplarmente quella che si potrebbe definire la differenza tra atto e azione: Polanski avvia una straordinaria indagine sul mistero della creatività. Chi è che scrive un romanzo, realizza un film, dipinge un quadro? Chi è, se c’è, l’autore di un’opera? Delphine non è più in sé, delira estaticamente, e, allora, a rigore, la si può considerare davvero autrice? Insomma, se, come ripeteva Bene: “l’atto è lo sprogetto dell’azione nello smemoramento di sé”, forse – e l’allusione di Polanski pare propria essere diretta in tale direzione –  stiamo lentamente portando a termine la desacralizzazione dell’autore, giacché appare sempre più evidente quanto egli sia un medium del mondo che abita (con gli altri) e non un creatore di mondi. Nel momento in cui ‘espelle’ l’opera (tanto per rimanere nel gergo beniano) non è in sé, è altrove, e, allora, gliene si può ancora ascrivere la paternità?

Ora, dunque, a fronte delle numerosissime e profonde suggestioni evocate da Quello che non so di lei, non è davvero un abuso definire nuovamente Roman Polanski maestro, uno che riesce a veicolare riflessioni decisive attraverso una costruzione drammaturgica lineare, che intrattiene piacevolmente lo spettatore; il quale, probabilmente, neanche sospetta quanto Grazia gli viene gentilmente offerta, quantunque, senza dubbio, una volta finita la proiezione sarà costretto a meditare (anche il più sprovveduto) su quelle immagini che lo hanno attraversato. Tutto quello che si può aggiungere è di non perdere l’occasione, ancora una volta, di fare esperienza del cinema di uno dei più grandi registi viventi.

 

Luca Biscontini

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