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Recensione: Sconnessi, i perfetti (s)conosciuti di Christian Marazziti

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Sapevate che, durante il giorno, lo schermo del telefono cellulare viene toccato duemilaseicento volte? E che quelle veramente necessarie sono soltanto quattordici?

A giudicare dal fatto che in Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese avevamo un gruppo di amici quarantenni impegnati a cimentarsi in un gioco consistente nel lasciare visibili e ascoltabili a tutti i presenti chiamate e messaggi ricevuti nei propri smartphone durante una cena casalinga, mentre in Non c’è campo (2017) di Federico Moccia veniva portata in scena una scolaresca in gita in un paese piuttosto isolato dal punto di vista della connettività, appare evidente che la dipendenza da chat e simili rientri tra le tematiche più gettonate della recente cinematografia tricolore.

Secondo lungometraggio diretto dal Christian Marazziti che, autore del drammatico E-bola (2015), svolge l’attività di attore fin dagli anni Novanta (Simpatici & antipatici e Il figlio più piccolo nel lungo curriculum), Sconnessi (2018) si accoda bene o male a questa tendenza, affrontando tramite la commedia la cosiddetta “Nomofobia”, ovvero lo stato ansioso che si manifesta quando non è possibile usare il cellulare.

Stato ansioso con cui, complice l’improvvisa assenza di internet, si trovano ad avere a che fare i familiari di un noto scrittore dalle fattezze di Fabrizio Bentivoglio, il quale, guru dell’analogico e nemico pubblico della rete telematica, in occasione del suo compleanno li raduna nel proprio chalet di montagna; cercando di creare finalmente un legame tra i due figli Eugenio Franceschini e Lorenzo Zurzolo e la seconda moglie, ovvero Carolina Crescentini, con al seguito il fratellastro incarnato da Ricky Memphis, appena cacciato di casa dalla consorte.

Un Memphis destinato a strappare non poche risate nel corso di un autentico scontro tra classi sociali in fotogrammi che, oltre alla suburriana Giulia Elettra Gorietti nei panni (pochi, in verità) della fidanzata del citato Franceschini, annovera Antonia Liskova in quelli di una tata ucraina e Benedetta Porcaroli – proveniente proprio dal sopra menzionato film di Genovese – a farle da figlia adolescente dipendente dai social network e fan del rapper Fedez.

Scontro tra classi sociali reso ulteriormente complicato dall’esilarante bipolarismo di uno Stefano Fresi fuggito dalla casa di riposo; man mano che lo script a cura del regista stesso insieme a Michela Andreozzi, Massimiliano Vado, Fabrizio Nardi e Gianluca Tocci provvede a sfruttare la teatralità dello spazio ristretto d’ambientazione al fine di inanellare una sequela di situazioni volte a lasciar emergere progressivamente segreti e risvolti più o meno inaspettati.

Alternando spesso l’umorismo ad una indispensabile spruzzata di sentimenti; in quanto, se da un lato viene osservato in maniera ironica come nel quartiere romano di Tor Pignattara si stia sempre un’ora indietro, dall’altro non manca chi afferma che l’amore è pericoloso, ma vale sempre la pena rischiare.

E, tra un Marcel Proust confuso con l’ex pilota automobilistico Alain Prost ed un emozionante momento romantico sulle note della Reality che fu colonna sonora de Il tempo delle mele (1980), vi è anche spazio per un più o meno velato omaggio al super classico della Settima arte Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut… mentre i minuti scorrono via velocemente e si giunge ai titoli di coda imbottiti di una piacevole sensazione di garbato divertimento.

 

Francesco Lomuscio

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