Da un letto violentemente tremolante che richiama in maniera inevitabile alla memoria quello della piccola Regan posseduta da un’entità demoniaca nel super classico friedkiniano L’esorcista alla tematica che, suggerita già nel titolo, non può fare altro che spingere a pensare all’artigliato Freddy Krueger, risulta chiaro che Slumber: Il demone del sonno tenda non poco a guardare a mitici modelli cinematografici horror del passato.
Ma, se lo sfigurato squarta-adolescenti creato da Wes Craven si manifesta nella dimensione onirica di coloro che dormono, qui abbiamo una minacciosa presenza estranea che sembrerebbe cercare di fare del male a chi soffre di “paralisi del sonno”, fenomeno che porta chi ne è afflitto a vivere, da sveglio, i propri incubi.
E, al suo primo lungometraggio da regista, Jonathan Hopkins ce ne porta a conoscenza attraverso la vicenda della Alice dalle fattezze della Maggie Q di Die hard – Vivere o morire, specialista nei disturbi del sonno che, perseguitata dal trauma di aver assistito alla misteriosa morte notturna del fratello minore, si ritrova nel suo studio una famiglia in cui uno dei bambini è tormentato proprio dal disturbo sopra menzionato.
Specialista che propende ad abbandonare il ragionamento scientifico accettando, di conseguenza, che sia qualcosa di non spiegabile razionalmente a trovarsi dietro la faccenda; man mano che la oltre ora e venti di visione si evolve attraverso lenti ritmi di narrazione, come vuole buona parte della tradizione della paura in fotogrammi d’inizio terzo millennio.
Lenti ritmi interrotti, dove necessario, da spaventi improvvisi generati soprattutto grazie al consueto utilizzo del sonoro, forte oltretutto delle efficaci musiche a firma di Ulas Pakkan.
Elemento che non manca di apparire prezioso alleato di una regia nient’affatto disprezzabile che, dalla inquietante sequenza d’apertura alla fase conclusiva che pare quasi suggerire influenze da paranoie polanskiane o da determinate produzioni risalenti agli anni Settanta (citiamo soltanto Terrore dallo spazio profondo di Philip Kaufman), si rivela in grado di dispensare tutt’altro che indifferenti dosi di angoscia.
Perché, tra disturbanti immagini di denti strappati e lunghi corridoi tempestati di ombre e contrasti fotografici, è proprio questa capacità di angosciare lo spettatore a rappresentare il punto di forza di un’operazione in fin dei conti originale, nonostante il più o meno voluto citazionismo cinefilo e le premesse (da Dead awake di Phillip Guzman a Be afraid di Drew Gabreski, la paralisi del sonno è stata al centro di diversi esempi analoghi nel solo biennio 2016-2017).
Francesco Lomuscio
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