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Recensione: Chiamami col tuo nome, un amore omosessuale sullo sfondo bucolico dell’Italia dei primi anni Ottanta

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Al di là dell’aspetto campanilistico che, senza dubbio, indurrà tanti a parteggiare per il suo film durante la notte degli Oscar che si terrà il 4 Marzo 2018 (quattro nomination, tra cui quella per il miglior film), onestà intellettuale esige che si fornisca una lettura lucida di Chiamami col tuo nome, ultimo lungometraggio di Luca Guadagnino, realizzato dopo l’abbastanza anonimo e pretenzioso A Bigger splash.

Chi scrive è persuaso del fatto che la scelta del tema dell’amore omosessuale – un argomento, sul piano cinematografico, irrimediabilmente fuori tempo massimo – tra due giovani, sullo sfondo intellettual-borghese dell’Italia del Nord degli anni Ottanta, sia stata funzionale ad accaparrarsi la benevolenza e il plauso di tutti coloro che, tra festival e cerimonie varie di assegnazione dei più disparati premi, sono chiamati a esprimere un giudizio. Presentato – guarda caso – al Festival di Berlino dell’anno scorso, manifestazione in cui notoriamente sono privilegiate le opere che trattano questioni sociali e politiche, il film è rimasto a bocca asciutta di riconoscimenti, e in questi giorni, proprio mentre venivano rese pubbliche le candidature degli Academy Awards del 2018, ci si è all’improvviso resi conto di essere davanti a un incontrovertibile capolavoro.

James Ivory, che ha scritto la sceneggiatura del film a partire dal romanzo omonimo di André Aciman, è certamente un regista raffinato, ma – se si è onesti risulta difficile non riconoscerlo – il suo cinema si è spesso ripiegato in un formalismo affettato, scandito da dialoghi lustrati ad arte, all’interno di contesti aristocratico-borghesi, che si srotolano in una sarabanda di piccoli drammi da salotto davvero poco coinvolgente. Insomma, il patrocinio del cineasta inglese non costituisce un’inoppugnabile garanzia di qualità.

Di più, di film sull’omosessualità negli ultimi anni ne sono stati sfornati a bizzeffe, per cui ci si chiede: era davvero necessario farne un altro? Non solo, evidentemente, in riferimento all’abuso che si è fatto dell’argomento, ma anche soprattutto in considerazione dell’effetto che sortisce il metter in scena per l’ennesima volta, drammatizzandola, la questione. Detto in altre parole: continuare a rappresentare le relazioni omossessuali come un Evento che necessita di una profonda elaborazione individuale e collettiva provoca la sensazione diffusa che esse costituiscano ancora una frattura lacerante del tessuto sociale in cui prendono corpo, laddove, in realtà, nella maggior parte dei casi, la diversità dell’orientamento sessuale non determina più, per fortuna, alcun particolare turbamento. Insomma, questo è un cinema di retro-guardia, provinciale, assai indietro culturalmente rispetto al pubblico cui si rivolge.

A rendere ancora più indigesta la fruizione complessiva, poi, concorrono una retorica buonista (il discorsetto del padre-professore-intellettuale-uomo mite-illuminato è il colpo di grazia che avrebbe fiaccato anche gli animi meglio disposti), nonché una gratuita dilatazione dei tempi della messa in scena, che tradisce il desiderio degli autori di convincere lo spettatore, sventolandola in ogni modo, della natura fortemente autoriale del film realizzato: la macchina da presa che indugia, in modo compiaciuto, sul profilmico dopo che gli attori sono andati fuori campo, dà corpo a immagini ‘patetiche’, che non restituiscono il ricercato senso di sospensione temporale, quanto, piuttosto, una grottesca interruzione che amplifica ancor di più la vacuità generale del piccolo dramma inscenato.

Un altro elemento che ha fatto sobbalzare lo scrivente sulla sedia, durante la visione, è stato l’abusivo utilizzo del nome di due grandi pensatori, citati a vanvera per fornire (una posticcia) consistenza filosofica: Martin Heidegger, che viene nominato e scioccamente liquidato (si parla di “nascondimento”: il percorso intellettuale del professore tedesco, che piaccia o no, è complessissimo; tirarlo in ballo in questo modo rivela una superficialità e una supponenza nauseanti); l’altro è Eraclito, di cui vengono letti alcuni frammenti, ancora oscuri, per la loro inaccessibilità, persino ai più accaniti studiosi.

Non ancora soddisfatto dei già vistosi errori compiuti, Guadagnino tenta di nobilitare il suo film con una sequenza in cui allestisce il recupero, dal fondo marino, di un’antica statua, per marcare il concetto – caso mai fosse sfuggito a qualcuno – dell’emersione di una parte costituente della soggettività di uno dei due giovani protagonisti. E rincara la dose alludendo, come già si era stigmatizzato in precedenza, a una presunta temporalità “altra” (una “durata” bergsoniana che si porrebbe in maniera antagonista e giustapposta alla dimensione cronologica), nella quale prenderebbe corpo l’eccedenza dell’Evento amoroso cui assistiamo per centotrenta, sfibranti minuti.

Le pur buone interpretazioni dei due interpreti, l’Armie Hammer visto in Mine dei nostri Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, e il giovanissimo Timothée Chalamet dei recenti Hostiles e Lady Bird, non riescono, da sole, a sostenere l’inconsistenza di una storia che non era necessario raccontare.

Aleggia su tutto, oltre all’iconografia ivoryana, il trascurabile Bertolucci di Io Ballo da sola, in cui una disorientata giovane compieva un percorso di maturazione all’interno dell’ennesimo gruppo di famiglia artistoide, intellettuale, borghese, progressista e di sinistra (gruppo che non era, ahinoi, quello di Visconti).


Luca Biscontini

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