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Recensione: Flavio Bucci inaugura la stagione del Teatro Greco con i canti di Leopardi

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Questa settimana in prima nazionale al Teatro Greco di Roma c’è stato il ritorno alle scene di un grande del teatro italiano, Flavio Bucci, dopo un’assenza di circa dieci anni, per l’inaugurazione della nuova stagione del teatro dal 3 al 5 novembre, con lo spettacolo “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai…”, il cui titolo è tratto dall’incipit del “Canto notturno del pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi, di cui Bucci ha interpretato alcuni dei canti più noti, accompagnato dalle musiche composte e suonate dal vivo dalla pianista Alessandra Celletti e dalla coreografa e danzatrice Gloria Pomardi, oltre alle immagini fotografiche di Guido Laudani che hanno fatto da scenografia, il tutto a cura del regista Marco Mattolini.

Flavio Bucci e Gloria Pomardi al Teatro Greco (foto di Giancarlo Fiori)
Flavio Bucci e Gloria Pomardi al Teatro Greco (foto di Giancarlo Fiori)

Non si è trattato di una semplice lettura ma di una vera e propria interpretazione da parte di Bucci, 69 anni, che seduto su una panchina alla destra della scena ha esordito con “O graziosa Luna, io mi rammento, che or volge l’anno, sovra questo colle, io venia pien d’angoscia a rimirarti…” (canto XIV “Alla Luna”), mentre Alessandra Celletti suona il piano a coda sulla sinistra e Gloria Pomardi danza al centro.

Quindi “La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole…” che segna l’inizio del celebre “Il Sabato del villaggio”, mentre la Celletti suona una delle sue composizioni tratte dal suo ultimo lavoro “Working on Satie” dedicato al musicista francese Erik Satie, poi Bucci prosegue con “Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia…” fino alla fine del XXV canto. Si prosegue con “La sera del dì festa” (canto XIII) che ricordiamo in una superba interpretazione di Carmelo Bene (a cui probabilmente Bucci si è ispirato) in “Voce dei canti”, tra le sue ultime sofferte prove d’attore: “Dolce e chiara è la notte e senza vento…“, senza la danzatrice, mentre Alessandra oltre a suonare il piano a un certo punto inizia anche a cantare. “Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente“. Il successivo canto è il celebre “Il passero solitario” (XI) che inizia con “D’in su la vetta della torre antica, passero solitario, alla campagna, cantando vai finché non more il giorno…“. Gloria Pomardi porta dei fiori gialli a Bucci e quasi lo accarezza da dietro, con molta grazia, mentre lui conclude sconsolato il canto: “A me, se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro…del dì presente più noioso e tetro, che parrà di tal voglia? Che di quest’anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro“.

Marco Mattolini, Alessandra Celletti, Gloria Pomardi e Flavio Bucci (foto di Giancarlo Fiori)
Marco Mattolini, Alessandra Celletti, Gloria Pomardi e Flavio Bucci (foto di Giancarlo Fiori)

Dopo un breve intermezzo con la sola Celletti al piano, Bucci riprende con “Il primo amore” (canto X): “Ahi come mal mi governasti, amore! Perché seco dovea sì dolce affetto, recar tanto desio, tanto dolore?” e ancora “E dove io tristo ed affannato e stanco gli occhi al sonno chiudea, come per febre rotto e deliro il sonno venia manco…“. Quindi Bucci passa a dedicare i versi “Alla sua donna” (canto XVIII) “Fra cotanto dolore quanto all’umana età propose il fato, se vera e quale il mio pensier ti pinge, alcun t’amasse in terra, a lui pur fora, questo viver beato…” che si conclude con “Di qua dove son gli anni infausti e brevi, questo d’ignoto amante inno ricevi”. Mentre suona ancora la Celletti torna la danzatrice con una sedia al centro della scena, quindi è la volta della celeberrima “A Silvia” (XXI) con il famoso incipit “Silvia, rimembri ancora…“, che il poeta di Recanati dedica alla giovane donna morta prematuramente “Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia!”.
Dopo il dolore per la morte di Silvia (“La fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano”), c’è “La quiete dopo la tempesta” (canto XXIV) con Bucci che intona “Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso”. Gloria Pomardi danza con un ombrello al centro, quindi Bucci riprende con “Le ricordanze” (XXII): “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi…”, la poesia del “natio borgo selvaggio” e del dolore per la morte di Nerina. Alla fine Bucci ringrazia il pubblico e la danzatrice recita i versi del canto XXVIII “A se stesso” che termina con “E l’infinita vanità del tutto”. C’è ancora il tempo per una musica dal sapore minimalista sempre più sostenuta, alla Philip Glass, suonata dalla Celletti, e poi Bucci riprende con il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” (XXIII) che dà il titolo allo spettacolo: “Che fai tu, Luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?…”, dove il poeta nelle vesti di un pastore interroga la Luna e si chiede: “Dimmi: perchè giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”.

Gloria Pomardi, Alessandra Celletti, Flavio Bucci (foto di Giancarlo Fiori)
Gloria Pomardi, Alessandra Celletti, Flavio Bucci (foto di Giancarlo Fiori)

La danzatrice scorre dietro le fotografie appese sullo sfondo che fanno da scenografia, mentre si conclude il canto con un’amara riflessione esistenziale: “Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”. A questo punto Bucci con le ali dietro recita “L’infinito”, forse la vetta della poesia leopardiana “Sempre caro mi fu quest’ermo colle…e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Sipario, il ritorno del grande Flavio Bucci sulle scene è appena compiuto e già ci manca.

Alessandro Sgritta

 

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